Non è un romanzo o una storia sull’Ilva o sulla Finsider di Taranto, non è un saggio, semmai è più un’ode epico-guerresca, con venature futuriste, quella che Mellone ci dona in questa sua ultima fatica letteraria.
Dove il campo di “guerra” sono gli altoforni e le relative ciminiere, dove non ci sono “vittime” ma solo eroi, il cui unico obiettivo era quello di plasmare materiale diverso grezzo e rozzo quale minerale ferroso e carbonioso, fuso insieme e trasformato in una fucina che lo fa diventare lamiera di acciaio, appunto, quello con cui si costruirà il “miracolo italiano” fatto di vespe e 500, di frigoriferi e di lavatrici.
Un libro scritto, mi verrebbe da dire “col cuore”, in realtà sarebbe meglio dire “con la carne”, rende meglio la visceralità con cui l’autore si confronta con quel mondo da lui conosciuto, da ragazzino abitante nel quartiere “Tamburi”, col padre Eroe in fabbrica, operaio prima, poi dirigente, Eroe tra gli Eroi, anche lui nel novero di quelli cha alla fine hanno dato la vita per questa attività. Niente “vittimismo” quindi ma solo dignitosa fierezza del soldato che porta a termine il compito con tutto sé stesso.
Non a caso riecheggia lo Jungher di “Tempeste d’acciaio” e il Mishima di “Sole ed Acciaio”, ma anche il Futurismo Marinettiano, del quale uno dei suoi Punti, forse quello più caratterizzante, recita esattamente così:
<Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, e le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.>
Reminiscenze, ricordi, pensieri, immagini, odori, sapori, mischiano passato e presente di una Taranto legata indissolubilmente a quegli stabilimenti, a quegli enormi cancelli dell’Italsider, con le poche macchine di allora a “sfrecciare” sulla vicina statale ionica, macchine che rappresentavano il prodotto finale di quegli sforzi supremi, e quella fuliggine che usciva dalle ciminiere e che legava indissolubilmente una città, intorno a quegli eroi, che lavoravano in turni che oggi neanche ci potremmo immaginare, trascurando la famiglia e gli affetti.
Mellone ci racconta con orgoglio di una Taranto città di Impero e di Guerra, di acciaio prodotto per tutto quello che rappresenta il “progresso tecnologico” del novecento, navi immense, grattacieli, aerei, pilastri, auto, persino le auto elettriche non inquinanti che piacciono tanto agli “ambientalisti”.
Un inno all’acciaio quindi, ed un monito verso chi ignora la storia di Taranto, l’orgoglio di chi aveva lasciato un presente fatto di povertà e di vergogna per glorificarsi in un futuro di acciaio. Acciaio che portava molta gente del sud, piuttosto che emigrare per lavorare come bestie in zone tristementi conosciute come Marcinelle, in Belgio, a riprendersi la propria dignità arruolandosi in questa “guerra dell’acciaio”.
Acciaio e Mare che accolsero innumerevoli genti del sud ridando loro una identità.
Mi sono dilungato, ma questa è la visione di Angelo Mellone, poetica, tragica, epica.
Cinquecento croci individuano quei martiri, quegli eroi, che arrivarono a donare la propria vita per la “causa”
Per tutto questo Mellone chiede rispetto per Taranto, per la sua Storia, contro gli “ambientalisti” “smemorati” come li chiama, per la verità ha usato, ad esempio in facebook, il termine “qualunquambientalisti”, una fusione dei termini qualunquista ed ambientalista.
E qui aggiungo qualche mia considerazione.
Intanto, un mio piccolo “flashback” datato anni settanta. Gli scout ai quali facevo parte all’epoca decidono di fare un “campo estivo” in Puglia e nel programma c’è anche una visita alle acciaierie di Taranto. All’epoca post-sessantottina gli scout erano chiaramente ideologizzati a sinistra e per la sinistra dell’epoca le acciaierie rappresentavano l’humus operaio a cui facevano riferimento, paradossalmente in quella sinistra riecheggiava lo stesso orgoglio operaio di cui parla Mellone. Andarono a fare la visita all’altoforno, io non ci andai e mi pentii dopo che mi raccontarono in modo entusiasta quello che avevano visto, le impressionanti colate e tutto il resto. Torniamo al libro.
Alla visione “eroica” di Taranto e dei tarantini andrebbe affiancato il “rovescio della medaglia”, non da poco, ovvero che, questa straordinaria fabbrica di acciaio, abbia, nel corso degli anni, distrutto qualsiasi attività parallela possibile, oltre aver danneggiato l’ambiente e la salute dei tarantini.
Niente più agricoltura, niente più allevamento, mare inquinato e veleni dappertutto, nell’aria, nell’acqua, nel cibo, nel ciclo biologico, il cancro che distrugge senza pietà giovani e vecchie vite, che corrode le speranze di chi abita nelle vicinanze.
Fabbrica che costringe, volenti o nolenti, ai tarantini a scegliere tra la “guerra d’acciaio” o la disoccupazione certa, senza possibilità di alternative. Le alternative che questo modello di sviluppo ha bruciato nel corso degli anni, nelle sue cockerie si sono sacrificate le speranze di chi avrebbe voluto non essere obbligato a partecipare a questa “guerra”. O sali sul treno d’acciaio o emigri, queste le alternative.
Mellone non si è accorto che l’epoca o l’epica guerresca riguarda ormai il passato, che oggi occorra un approccio diverso, che l’industria “pesante” energivora ed inquinante rappresenta un modello non più accettabile e sostenibile né a livello economico né a livello ambientale. Negli ultimi anni i Riva hanno distrutto quel gioiello tecnologico ingurgitando tutti i proventi ed anche tutti gli “aiuti” ricevuti che sarebbero dovuti servire a rendere la loro attività più sostenibile a livello ambientale. Risultato: una attività gestita con tecnologie ed apparecchiature obsolete non più al passo coi tempi. Si potrebbe ripartire togliendo l’azienda agli attuali indegni proprietari e statalizzandola? Forse, ma occorrerebbero fondi importanti e sarebbe difficile ridurre in poco tempo questo devastante impatto ambientale.
Altre possibilità?
1) bonificare tutta l’area
2) nazionalizzare l’azienda lasciando solo le attività che possono essere rese facilemente ecocompatibili, chiudendo definitivamente tutte le altre.
3) Creare nuovi posti di lavoro: non con le solite “cattedrali nel deserto”, non con finanziamenti “ a pioggia” privi di un controllo, ma creando dei percorsi guidati e controllati al fine di aprire attività nel campo della formazione, del risparmio energetico, delle energie alternative, del riuso, del riciclo dei materiali, dell’agricoltura biologica, del turismo, dell’allevamento, della pesca, della ricerca. Si potrebbero fare tantissime micro-iniziative con pochissimi finanziamenti, lo stato dovrebbe solo “agevolare” nuove attività che rientrino in un modello meno invasivo per l’ambiente, che non abbiano necessità di forti finanziamenti, che facciano capo ad una rete di operatori economici equo-solidali, lontani anni luce dai boss mafiosi e dai “Padrini” politici. L’epoca della guerra in acciaieria è finita, lavoriamo insieme per una pace dignitosa, laboriosa e “sana” e possibilmente per un modello nuovo di società dove si dia più importanza alla “qualità della vita” piuttosto che al PIL.
Utopia? non credo. Il modello di "sviluppo" della società di oggi è un modello totalmente "dissennato" che prevedeva una "crescita" infinita dell'economia e dei "consumi". Oggi sappiamo che non è più possibile, dal momento che le nazioni in via di sviluppo pretendono giustamente, anche loro di "crescere". Peccato che le risorse non siano infinite e neanche le materie prime. Occorre cambiare il modello di società, ma questa è un'altra storia e ne parleremo prossimamente...
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